sabato 17 marzo 2012

Impresa familiare coltivatrice, collaboratori familiari e diritto di credito

L'impresa familiare coltivatrice è disciplinata dagli artt. 230bis c.c. e dall'art.48 della legge 203/1982, il primo relativo alla figura generica dell'impresa familiare, il secondo specificatamente destinato a quella agricola, laddove non sia in contrasto con la normativa generale.
Si tratta a ben vedere di creare una figura giuridica combinando i disposti di entrambi gli articoli, in particolare utilizzando il 230bis per la regolazione interna dei rapporti, il 48 203/82 per la responsabilità esterna, al fine avere un organismo collettivo finalizzato all'esercizio in comune di un'impresa agricola. Merita in particolare la responsabilità esterna, prevista per tutti gli appartenenti della famiglia, un esame di comparazione con le regole della società semplice (cui l'impresa famigliare coltivatrice è fortemente ispirata) perfettamente analogiche, laddove i soci sono tutti responsabili per decisioni ed obbligazioni esterne assunte disgiuntamente, purché non prese in netto contrasto con decisioni prese a maggioranza, in tal caso la responsabilità è del singolo.
La costituzione di un’impresa familiare non richiede la redazione di atto pubblico o scrittura privata autenticata, documenti necessari al fine di adempiere alle particolari norme fiscali cui l’impresa è sottoposta.
Infatti, l’art. 230 bis del c.c., stabilisce, tra l’altro, che “salvo che sia configurabile un diverso rapporto il familiare che presta in modo continuativo una sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ……”.
Per “familiari” s’intendono il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
Il titolare dell’impresa agricola ha l’obbligo di assicurare i familiari che partecipano al lavoro.
Tuttavia, qualora le prestazioni svolte da parenti ed affini entro il terzo grado in maniera occasionale o di breve periodo, di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale, senza corresponsione di compenso e con il solo riconoscimento delle spese di mantenimento e di esecuzione di lavori, non costituiscono, in ogni caso, rapporto di lavoro autonomo o subordinato, ai sensi dell’art. 74 del d.lgs. 276/03.
I componenti di tale impresa devono comunque svolgere lavoro esecutivo, non solo co-direttivo e co-organizzativo, ovviamente secondo il criterio del terzo.
L'art. 230-bis del c.c. al comma 1 statuisce che i familiari che prestano la loro attività di lavoro in modo continuativo nella famiglia o nell'impresa familiare hanno diritto, oltre che al mantenimento, a partecipare "...agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi...". Rispetto agli utili non vi è alcun dubbio che essi costituiscano un diritto di credito dovendo essere liquidati in danaro ai collaboratori. Diversa considerazione merita, il problema della natura dei diritti spettanti ai partecipanti sui beni acquistati con gli utili stessi, che è, invece, molto discusso ed, in assenza di chiari indici normativi, è stato risolto in modo difforme e contrastante dalla dottrina e senza che vi sia nemmeno unità nella giurisprudenza della S.C..
Innanzi tutto, per cercare di chiarire il problema, bisogna ricordare che l'impiego di tali utili è deciso ex art. 230-bis, c.c., comma 1, "...a maggioranza, dei familiari che partecipano all'impresa stessa". Quindi sono gli stessi partecipanti che autorizzano il dominus all'impiego degli stessi in beni anziché chiederne la loro liquidazione, beni che possono essere sia inerenti all'attività di impresa e quindi facenti parte del compendio aziendale sia beni extra-aziendali, come ad esempio un appartamento per civile abitazione.
In dottrina si registrano posizioni discordanti circa la soluzione del problema, l'unico dato che sembra, intanto, debba essere preso per fermo è che la natura di tali diritti non deve essere influenzata dalla natura giuridica degli istituti.
Il problema è di notevole rilevanza pratica, soprattutto visto in sede di una stipulazione riguardante un tale bene. Nel caso ai partecipanti spettino solo diritti di natura obbligatoria l'unico proprietario di tali beni sarà il dominus che li ha acquistati e, pertanto, ai familiari collaboratori spetteranno solo ragioni di natura obbligatoria in caso di cessazione della prestazione di lavoro, scioglimento dell'impresa o di cessione a terzi di tali beni; nell'opposto caso, in cui si riconosca natura reale a tali diritti, il dominus si troverà in una situazione di contitolarità rispetto a tali beni, con tutte le conseguenze del caso in ipotesi di cessazione di tale situazione di contitolarità.
Secondo parte della dottrina, i collaboratori all'impresa familiare sarebbero titolari pro-quota assieme al dominus di un diritto reale sui beni acquistati con gli utili ad essi spettanti, più specificamente tali beni cadrebbero in comunione indivisa fra tutti i partecipanti e la normativa da applicare sarebbe solo quella della comunione ordinaria. A parte il forte argomento letterale, "partecipare" significa proprio "avere parte", questa dottrina argomenta la natura reale di tale diritti sulla considerazione che il dominus nell'effettuare l'acquisto agirebbe in rappresentanza del gruppo, essendo a ciò autorizzato nel momento in cui sia stato deciso il reimpiego di tali utili; in tali casi ai collaboratori dissenzienti è accordato il diritto di chiedere l'immediata liquidazione della loro parte di utili. Anche nella giurisprudenza del S.C. non mancano pronunce che si rifanno all'impostazione di tale diritto come reale affermando espressamente che il regime della comunità tacita familiare è idoneo ad estendersi ipso iure agli acquisti fatti da ciascun partecipante senza bisogno di mandato degli altri né di successivo negozio di trasferimento, sussistendo solamente un onere di fornire la relativa prova incombente su colui che vanti tale diritto.
Secondo altra parte della dottrina, che non distingue il diverso trattamento che deve essere riservato, nell'ambito dei diritti partecipativi di cui all'art. 230-bis c.c. che comprendono utili, beni acquistati con essi ed incrementi dell'azienda, la soluzione del problema si presenta in termini nettamente antitetici, il regime della comunità tacita familiare non si estende ipso iure al bene acquistato da ciascun partecipante in nome proprio ancorché per conto della comunione, i diritti partecipativi dei partecipanti ad impresa familiare, qualunque essi siano, hanno sempre natura obbligatoria. Sussisterebbe in questi casi un obbligo di trasferimento del singolo acquirente agli altri membri della comunione o dell'impresa familiare, obbligo per di più non coercibile se non assistito da un idoneo atto scritto.
Secondo la Suprema Corte, Cassazione Civile Sez. L Sentenza 16-01-2004 (08-07-2003) n. 631, il diritto positivo non consente di concepire tali istituti come organizzazioni munite di soggettività e di riconoscere conseguentemente una rappresentanza organica dei partecipanti; ma la soluzione del problema non deve essere influenzata dalla natura giuridica di tali istituti. La Cassazione si richiama a consolidati propri orientamenti dove si afferma che i diritti partecipativi non intaccano la titolarità dell'azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio: a tal fine la Suprema Corte distingue tra aspetto interno del gruppo familiare dove avrebbero pieno spazio i diritti partecipativi, ed aspetto esterno dove rilevante è solo la figura dell'imprenditore dominus del consorzio familiare. Affermazione pienamente condivisibile ove non si considerasse che i collaboratori, al momento della decisione sull'impiego degli utili, manifestando una propria volontà concorrono essi stessi a formare il consenso necessario all'acquisto esprimendo la determinazione di divenire com-proprietari rispetto a tali beni; allora non avrà più senso di parlare d'aspetto interno ed aspetto esterno ma bensì dovranno essere da questo momento in poi applicate solo le norme in tema di comunione e non più le norme in tema di impresa familiare. Quindi il richiamo alla titolarità dell'azienda anche se corretto sembra inconferente al fine di risolvere il problema de qua.
La posizione di coloro che assimilano tout court la natura del diritto agli utili con la natura del diritto sui beni acquistati con essi appare semplicistica e poco analitica, dovendo invece essere trattati i due aspetti in modo singolare anche se facenti parte di un unico diritto partecipativo. Essa tra l'altro appare in netto contrasto con le finalità di protezione che caratterizzano l'istituto. Infatti, un vincolo di natura reale, ove opponibile, rappresenta sicuramente una tutela maggiore in caso di fallimento dell'imprenditore (si ricorda che l'imprenditore agricolo non può fallire, quest'ipotesi vale per imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori) per i partecipanti lavoratori rispetto ad un diritto di natura meramente obbligatoria.
In dottrina non mancano anche posizioni intermedie che collocano i diritti partecipativi in una posizione intermedia tra diritto reale e mero diritto di credito a seconda delle situazioni concrete ma che in ogni modo non colgono appieno la differenza di trattamento che deve essere riservata agli utili ed ai beni acquistati con essi.
Il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, all’art. 5, precisa che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, purché l’indicazione dei familiari e del loro rapporto di parentela o affinità con l’imprenditore risulti da atto pubblico o scrittura privata autenticata, anteriore al periodo d’imposta, e sottoscritta dall’imprenditore e dai familiari stessi; è altresì necessario che l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato dai familiari, risulti dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore; che, infine, ciascun familiare attesti nella propria dichiarazione dei redditi di aver prestato la sua attività di lavoro in modo continuativo e prevalente .
Secondo quanto previsto nell'articolo 5 del Dpr 917/86, quindi, i redditi delle imprese familiari di cui all'articolo 230 bis del Codice civile, limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La disposizione si applica a condizione che i familiari partecipanti all'impresa risultino nell'atto pubblico (o scrittura privata autenticata) anteriore all'inizio del periodo d'imposta e a condizione che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d'imposta. Inoltre, ciascun familiare dovrà attestare, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente. Si ricorda che la falsità dell'attestazione resa dal titolare nella dichiarazione dei redditi, relativamente alle quote dei collaboratori, prevede sanzioni fiscali e penali. 
Dal combinato disposto degli articoli 5 del Testo Unico delle imposte sui redditi e 230 bis del Codice civile, non è del tutto chiaro se le somme corrisposte per gli incrementi patrimoniali siano tassabili in capo al collaboratore e con quali modalità. In primo luogo, si potrebbe sostenere che la somma percepita dai collaboratori a titolo di incremento patrimoniale sia imponibile in capo a questi ultimi. Conseguentemente dovrebbero essere considerati deducibili in capo all'imprenditore gli importi corrisposti al collaboratore a titolo di partecipazione agli incrementi patrimoniali. Tale interpretazione sembrerebbe avvalorata da una nota diffusa dal ministero delle Finanze (984 del 17 luglio 1997), nella quale si afferma che i collaboratori familiari vanno considerati assegnatari di una quota parte della plusvalenza realizzata nel caso di cessione dell'impresa familiare. Al contrario, potrebbe ritenersi che l'incremento patrimoniale non vada tassato in capo al collaboratore, ma unicamente in capo all'imprenditore e all'atto del realizzo. In effetti, i collaboratori familiari vanno considerati non come comproprietari dell'impresa, ma semplicemente come creditori dell'imprenditore. Ad avvalorare questa seconda tesi è stato lo stesso ministero delle Finanze che, con la circolare 320 del 19 dicembre 1997 (contraria alla precedente nota), ha rilevato che gli incrementi patrimoniali riconosciuti ai collaboratori non assumono rilevanza fiscale né come componenti positivi in capo al collaboratore e né come componenti negativi deducibili in capo all'imprenditore. Si può quindi distinguere tra plusvalenze realizzate e plusvalenze latenti. Solo le plusvalenze realizzate dovrebbero essere considerate imponibili come previsto dalla seconda delle interpretazioni proposte, che appare per molti aspetti preferibile. Come evidenziato, gli incrementi attribuiti dall'imprenditore al collaboratore familiare, se correttamente inquadrati, vanno considerati delle attribuzioni patrimoniali avvenute in forza di un rapporto di tipo privatistico il cui trattamento fiscale non è disciplinato dall'articolo 5 del Testo Unico delle imposte sui redditi.
la liquidazione delle somme versate al familiare che intende recedere dall'impresa, poi, afferisce alla sfera personale dei soggetti del rapporto e, pertanto, non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali previste dal D.P.R. 917/1986. Di conseguenza, tali importi non vanno assoggettati ad Irpef in capo al soggetto percipiente e non sono deducibili dal reddito d' impresa, non rilevando quale componente negativo mancando il requisito dell'inerenza previsto dall'art. 109, co. 5, D.P.R. 917/1986. Infatti l'impresa familiare ha natura individuale avendo la partecipazione del familiare agli utili dell'impresa (ex art. 5, D.P.R. 917/1986) una rilevanza meramente interna nei rapporti tra l'imprenditore ed i suoi familiari, in quanto il fondamento di tale istituto va ravvisato nella solidarietà che risiede nei rapporti familiari e nell'esigenza di tutelare e valorizzare il lavoro prestato dai componenti della famiglia nell'impresa (R.M. 28.4.2008, n. 176/E).
Come si è visto, non si comprendono natura e caratteristiche dell’impresa familiare, se non si accetta il principio dell’estrema varietà delle forme con cui essa può atteggiarsi. Di ciò in vario modo ha tenuto conto il legislatore nel disciplinare due profili, quello tributario e quello agricolo, in modi apparentemente contrapposti.

Se dunque ai fini fiscali l’impresa familiare è sicuramente individuale, in campo agricolo l’art. 48, l. n. 203/1982 precisa che il contratto con cui il concedente attribuisce il godimento del fondo, intercorre con la famiglia coltivatrice nella forma dell’impresa familiare; la famiglia a richiesta del concedente, può essere rappresentata da uno dei familiari. A tal fine, l’impresa è quindi sicuramente collettiva . Potrebbe esservi comunque un’impresa collettiva, gestita paritariamente da tutti i familiari; ma ciò come si concilierebbe con la scelta del legislatore fiscale? A questo scopo l’impresa dovrebbe probabilmente trasformarsi: in società semplice, od in nome collettivo od in accomandita; ed il familiare che lavora in famiglia sarebbe considerato lavoratore subordinato (ciò anche se i rapporti «interni» tra familiari si mantengano differenti). E se l’impresa familiare coltivatrice fosse invece individuale e non collettiva? Qui la soluzione sarebbe forse più semplice: la famiglia rimarrebbe formalmente titolare del contratto, ma il «rappresentante» sarebbe il «reale» titolare.La differenza evidenziata tra la disciplina civilistica, fiscale ed agraria indica, se ancor ve ne fosse bisogno, l’estrema mutevolezza dell’organismo in esame, che richiederebbe comunque un intervento normativo maggiormente coordinato, seppur sempre rispettoso della pluralità di forme, nelle quali l’impresa si manifesta.

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