L'impresa familiare coltivatrice è disciplinata dagli artt. 230bis
c.c. e dall'art.48 della legge 203/1982, il primo relativo alla figura
generica dell'impresa familiare, il secondo specificatamente destinato a
quella agricola, laddove non sia in contrasto con la normativa
generale.
Si tratta a ben vedere di creare una figura giuridica
combinando i disposti di entrambi gli articoli, in particolare
utilizzando il 230bis per la regolazione interna dei rapporti, il 48
203/82 per la responsabilità esterna, al fine avere un organismo collettivo finalizzato all'esercizio in comune di un'impresa agricola.
Merita in particolare la responsabilità esterna, prevista per tutti gli
appartenenti della famiglia, un esame di comparazione con le regole
della società semplice (cui l'impresa famigliare coltivatrice è
fortemente ispirata) perfettamente analogiche, laddove i soci sono tutti
responsabili per decisioni ed obbligazioni esterne assunte
disgiuntamente, purché non prese in netto contrasto con decisioni prese a
maggioranza, in tal caso la responsabilità è del singolo.
La costituzione di un’impresa familiare non richiede la redazione di atto pubblico o scrittura privata autenticata, documenti necessari al fine di adempiere alle particolari norme fiscali cui l’impresa è sottoposta.
Infatti, l’art. 230 bis del c.c., stabilisce, tra l’altro, che “salvo che sia configurabile un diverso rapporto il familiare che presta in modo continuativo una sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ……”.
Per “familiari” s’intendono il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
Il titolare dell’impresa agricola ha l’obbligo di assicurare i familiari che partecipano al lavoro.
Tuttavia, qualora le prestazioni svolte da parenti ed affini entro il terzo grado in maniera occasionale o di breve periodo, di aiuto, mutuo aiuto, obbligazione morale, senza corresponsione di compenso e con il solo riconoscimento delle spese di mantenimento e di esecuzione di lavori, non costituiscono, in ogni caso, rapporto di lavoro autonomo o subordinato, ai sensi dell’art. 74 del d.lgs. 276/03.
I componenti di tale impresa devono comunque svolgere lavoro
esecutivo, non solo co-direttivo e co-organizzativo, ovviamente secondo
il criterio del terzo.
L'art. 230-bis del c.c. al comma 1 statuisce
che i familiari che prestano la loro attività di lavoro in modo
continuativo nella famiglia o nell'impresa familiare hanno diritto, oltre che al mantenimento, a partecipare "...agli utili dell'impresa familiare
ed ai beni acquistati con essi...". Rispetto agli utili non vi è alcun
dubbio che essi costituiscano un diritto di credito dovendo essere
liquidati in danaro ai collaboratori. Diversa considerazione merita, il
problema della natura dei diritti spettanti ai partecipanti sui beni
acquistati con gli utili stessi, che è, invece, molto discusso ed, in
assenza di chiari indici normativi, è stato risolto in modo difforme e
contrastante dalla dottrina e senza che vi sia nemmeno unità nella
giurisprudenza della S.C..
Innanzi tutto, per cercare di chiarire il problema, bisogna ricordare che l'impiego di tali utili è deciso ex art. 230-bis, c.c., comma 1, "...a maggioranza, dei familiari che partecipano all'impresa stessa". Quindi sono gli stessi partecipanti che autorizzano il dominus all'impiego degli stessi in beni anziché chiederne la loro liquidazione, beni che possono essere sia inerenti all'attività di impresa e quindi facenti parte del compendio aziendale sia beni extra-aziendali, come ad esempio un appartamento per civile abitazione.
In dottrina si registrano posizioni discordanti circa la
soluzione del problema, l'unico dato che sembra, intanto, debba essere
preso per fermo è che la natura di tali diritti non deve essere
influenzata dalla natura giuridica degli istituti.
Il
problema è di notevole rilevanza pratica, soprattutto visto in sede di
una stipulazione riguardante un tale bene. Nel caso ai partecipanti
spettino solo diritti di natura obbligatoria l'unico proprietario di
tali beni sarà il dominus che li ha acquistati e, pertanto, ai
familiari collaboratori spetteranno solo ragioni di natura obbligatoria
in caso di cessazione della prestazione di lavoro, scioglimento dell'impresa o di cessione a terzi di tali beni; nell'opposto caso, in cui si riconosca natura reale a tali diritti, il dominus
si troverà in una situazione di contitolarità rispetto a tali beni, con
tutte le conseguenze del caso in ipotesi di cessazione di tale
situazione di contitolarità.
Secondo parte della dottrina, i collaboratori all'impresa familiare sarebbero titolari pro-quota assieme al dominus
di un diritto reale sui beni acquistati con gli utili ad essi
spettanti, più specificamente tali beni cadrebbero in comunione indivisa
fra tutti i partecipanti e la normativa da applicare sarebbe solo
quella della comunione ordinaria.
A parte il forte argomento letterale, "partecipare" significa proprio
"avere parte", questa dottrina argomenta la natura reale di tale diritti
sulla considerazione che il dominus nell'effettuare l'acquisto agirebbe
in rappresentanza del gruppo,
essendo a ciò autorizzato nel momento in cui sia stato deciso il
reimpiego di tali utili; in tali casi ai collaboratori dissenzienti è
accordato il diritto di chiedere l'immediata liquidazione della loro
parte di utili. Anche nella giurisprudenza del S.C. non mancano pronunce
che si rifanno all'impostazione di tale diritto come reale affermando
espressamente che il regime della comunità tacita familiare è idoneo ad estendersi ipso iure
agli acquisti fatti da ciascun partecipante senza bisogno di mandato
degli altri né di successivo negozio di trasferimento, sussistendo
solamente un onere di fornire la relativa prova incombente su colui che
vanti tale diritto.
Secondo altra parte della dottrina, che non distingue il diverso trattamento che deve essere riservato, nell'ambito dei diritti partecipativi di cui all'art. 230-bis c.c.
che comprendono utili, beni acquistati con essi ed incrementi
dell'azienda, la soluzione del problema si presenta in termini
nettamente antitetici, il regime della comunità tacita familiare non si estende ipso iure
al bene acquistato da ciascun partecipante in nome proprio ancorché per
conto della comunione, i diritti partecipativi dei partecipanti ad impresa familiare,
qualunque essi siano, hanno sempre natura obbligatoria. Sussisterebbe
in questi casi un obbligo di trasferimento del singolo acquirente agli
altri membri della comunione o dell'impresa familiare, obbligo per di più non coercibile se non assistito da un idoneo atto scritto.
Secondo
la Suprema Corte, Cassazione Civile Sez. L Sentenza 16-01-2004 (08-07-2003) n. 631, il diritto positivo non consente di concepire tali
istituti come organizzazioni munite di soggettività e di riconoscere
conseguentemente una rappresentanza organica dei partecipanti; ma la soluzione del problema non deve essere influenzata
dalla natura giuridica di tali istituti. La Cassazione si richiama a
consolidati propri orientamenti
dove si afferma che i diritti partecipativi non intaccano la titolarità
dell'azienda e rilevano solo sul piano obbligatorio: a tal fine la
Suprema Corte distingue tra aspetto interno del gruppo familiare dove avrebbero pieno spazio i diritti partecipativi, ed aspetto esterno dove rilevante è solo la figura dell'imprenditore dominus del consorzio familiare.
Affermazione pienamente condivisibile ove non si considerasse che i
collaboratori, al momento della decisione sull'impiego degli utili,
manifestando una propria volontà concorrono essi stessi a formare il
consenso necessario all'acquisto esprimendo la determinazione di
divenire com-proprietari rispetto a tali beni; allora non avrà più senso
di parlare d'aspetto interno ed aspetto esterno ma bensì dovranno
essere da questo momento in poi applicate solo le norme in tema di
comunione e non più le norme in tema di impresa familiare. Quindi il richiamo alla titolarità dell'azienda anche se corretto sembra inconferente al fine di risolvere il problema de qua.
La posizione di coloro che assimilano tout court la
natura del diritto agli utili con la natura del diritto sui beni
acquistati con essi appare semplicistica e poco analitica, dovendo
invece essere trattati i due aspetti in modo singolare anche se facenti
parte di un unico diritto partecipativo. Essa tra l'altro appare in
netto contrasto con le finalità di protezione che caratterizzano
l'istituto. Infatti, un vincolo di natura reale, ove opponibile,
rappresenta sicuramente una tutela maggiore in caso di fallimento
dell'imprenditore (si ricorda che l'imprenditore agricolo non può fallire, quest'ipotesi vale per imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori) per i partecipanti lavoratori rispetto ad un diritto
di natura meramente obbligatoria.
In dottrina non mancano anche posizioni intermedie
che collocano i diritti partecipativi in una posizione intermedia tra
diritto reale e mero diritto di credito a seconda delle situazioni
concrete ma che in ogni modo non colgono appieno la differenza di
trattamento che deve essere riservata agli utili ed ai beni acquistati
con essi.
Il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917,
all’art. 5, precisa che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49%
dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore,
sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e
prevalente attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di
partecipazione agli utili, purché l’indicazione dei familiari e del loro
rapporto di parentela o affinità con l’imprenditore risulti da atto pubblico o
scrittura privata autenticata, anteriore al periodo d’imposta, e sottoscritta
dall’imprenditore e dai familiari stessi; è altresì necessario che
l’indicazione delle quote di partecipazione agli utili, in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato dai familiari, risulti
dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore; che, infine, ciascun
familiare attesti nella propria dichiarazione dei redditi di aver prestato la
sua attività di lavoro in modo continuativo e prevalente .
Secondo quanto previsto nell'articolo 5
del Dpr 917/86, quindi, i redditi delle imprese familiari di cui all'articolo 230 bis del Codice civile,
limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione
dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare,
che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua
attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua
quota di partecipazione agli utili. La disposizione si applica a
condizione che i familiari partecipanti all'impresa risultino
nell'atto pubblico (o scrittura privata autenticata) anteriore
all'inizio del periodo d'imposta e a condizione che la
dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione
delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e
l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla
qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato
nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo
d'imposta. Inoltre, ciascun familiare dovrà attestare, nella
propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua
attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e
prevalente. Si ricorda che la falsità dell'attestazione resa dal
titolare nella dichiarazione dei redditi, relativamente alle quote
dei collaboratori, prevede sanzioni fiscali e penali.
Dal combinato disposto degli articoli 5 del Testo Unico
delle imposte sui redditi e 230 bis del Codice civile, non è
del tutto chiaro se le somme corrisposte per gli incrementi
patrimoniali siano tassabili in capo al collaboratore e con quali
modalità. In primo luogo, si potrebbe sostenere che la somma
percepita dai collaboratori a titolo di incremento patrimoniale sia
imponibile in capo a questi ultimi. Conseguentemente dovrebbero
essere considerati deducibili in capo all'imprenditore gli importi
corrisposti al collaboratore a titolo di partecipazione agli
incrementi patrimoniali. Tale interpretazione sembrerebbe
avvalorata da una nota diffusa dal ministero delle Finanze (984 del
17 luglio 1997), nella quale si afferma che i collaboratori
familiari vanno considerati assegnatari di una quota parte della
plusvalenza realizzata nel caso di cessione dell'impresa familiare.
Al contrario, potrebbe ritenersi che l'incremento patrimoniale non
vada tassato in capo al collaboratore, ma unicamente in capo
all'imprenditore e all'atto del realizzo. In effetti, i
collaboratori familiari vanno considerati non come comproprietari
dell'impresa, ma semplicemente come creditori dell'imprenditore. Ad
avvalorare questa seconda tesi è stato lo stesso ministero
delle Finanze che, con la circolare 320 del 19 dicembre 1997
(contraria alla precedente nota), ha rilevato che gli incrementi
patrimoniali riconosciuti ai collaboratori non assumono rilevanza
fiscale né come componenti positivi in capo al collaboratore e
né come componenti negativi deducibili in capo
all'imprenditore. Si può quindi distinguere tra plusvalenze
realizzate e plusvalenze latenti. Solo le plusvalenze realizzate
dovrebbero essere considerate imponibili come previsto dalla
seconda delle interpretazioni proposte, che appare per molti
aspetti preferibile. Come evidenziato, gli incrementi attribuiti
dall'imprenditore al collaboratore familiare, se correttamente
inquadrati, vanno considerati delle attribuzioni patrimoniali
avvenute in forza di un rapporto di tipo privatistico il cui
trattamento fiscale non è disciplinato dall'articolo 5 del
Testo Unico delle imposte sui redditi.
la liquidazione delle somme versate al
familiare che intende recedere dall'impresa, poi, afferisce
alla sfera personale dei soggetti del rapporto e, pertanto,
non è riconducibile a nessuna delle categorie reddituali
previste dal D.P.R.
917/1986. Di conseguenza, tali importi non vanno
assoggettati ad Irpef in capo al soggetto percipiente e
non sono deducibili dal reddito d'
impresa, non rilevando quale componente negativo mancando il
requisito dell'inerenza previsto dall'art. 109, co. 5, D.P.R. 917/1986. Infatti l'impresa
familiare ha natura individuale avendo la partecipazione del
familiare agli utili dell'impresa (ex art. 5, D.P.R. 917/1986) una rilevanza meramente
interna nei rapporti tra l'imprenditore ed i suoi familiari,
in quanto il fondamento di tale istituto va ravvisato nella
solidarietà che risiede nei rapporti familiari e
nell'esigenza di tutelare e valorizzare il lavoro prestato dai
componenti della famiglia nell'impresa (R.M. 28.4.2008, n.
176/E).
Come si è visto, non si comprendono natura
e caratteristiche dell’impresa familiare, se non si accetta il principio
dell’estrema varietà delle forme con cui essa può atteggiarsi. Di ciò in vario
modo ha tenuto conto il legislatore nel disciplinare due profili, quello
tributario e quello agricolo, in modi apparentemente contrapposti.
Se dunque ai fini fiscali l’impresa
familiare è sicuramente individuale, in campo agricolo l’art. 48, l. n.
203/1982 precisa che il contratto con cui il concedente attribuisce il
godimento del fondo, intercorre con la famiglia coltivatrice nella forma
dell’impresa familiare; la famiglia a richiesta del concedente, può essere rappresentata
da uno dei familiari. A tal fine, l’impresa è quindi sicuramente collettiva
. Potrebbe esservi comunque un’impresa collettiva, gestita paritariamente da tutti i familiari; ma ciò come si
concilierebbe con la scelta del legislatore fiscale? A questo scopo l’impresa
dovrebbe probabilmente trasformarsi: in società semplice, od in nome collettivo
od in accomandita; ed il familiare che lavora in famiglia sarebbe considerato
lavoratore subordinato (ciò anche se i rapporti «interni» tra familiari si mantengano
differenti). E se l’impresa familiare coltivatrice fosse invece individuale e
non collettiva? Qui la soluzione sarebbe forse più semplice: la famiglia
rimarrebbe formalmente titolare del contratto, ma il «rappresentante» sarebbe
il «reale» titolare.La differenza evidenziata tra la
disciplina civilistica, fiscale ed agraria indica, se
ancor ve ne fosse bisogno, l’estrema mutevolezza dell’organismo in esame, che
richiederebbe comunque un intervento normativo maggiormente coordinato, seppur
sempre rispettoso della pluralità di forme, nelle quali l’impresa si manifesta.
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